Pascal Mijnssen, Nora Zeller
In the context of our master’s thesis in Architecture at ETH Zurich, we are investigating the interplay of body, language, and meaning within the process of architectural design through the lens of Eugene Gendlin’s philosophy and methodologies of TAE (Thinking at the Edge) and Focusing. This document represents our documentation of the first part of our research, which we began during the spring semester. The document therfore serves as both the final product and a record of the process of its own development. The pdf is the digital version of the booklet, which was conceptualised as physical artifact/model. Currently, we are preparing for the project semester, during which we will test these methods in the design of an architectural project through which we want to develop embodied, situated pedagogical and didactic frameworks to discover new approaches to practicing architecture.




Alessandro Galli
Note per trovare ordine nel caos iconografico.
Come studente e apprendista fotografo, mi interrogo spesso sull’utilità di esprimere un messaggio. Mi chiedo che senso abbia scegliere un linguaggio piuttosto che un altro, in un mondo in cui ogni cosa sembra già detta, già vista. Eppure, forse proprio per questo, vale la pena fare la fatica di portare ordine attraverso le immagini. Provare a esprimere un messaggio il più chiaro possibile con il medium che più di ogni altro caratterizza quest’era dell’informazione e dell’intrattenimento. Un medium che vive immerso in un caos contemporaneo totale, e porta con sé significati personali, sociali e rimane ambiguo per sua natura. È un linguaggio che non si lascia mai del tutto decifrare, e ci piace anche e soprattutto per questa ragione. Ecco perché resistere al caos delle immagini con altre immagini, forse, ha un senso. Viviamo in un mondo dove ognuno sembra inventare un linguaggio nuovo, sconosciuto. E allora diventa fondamentale produrre messaggi quanto più chiari possibile nel proprio linguaggio, per cercare di portare ordine nel disordine crescente delle lingue e dei segni che ci circondano.Credo infatti che ogni cosa possa essere considerata linguaggio: basta un messaggio da veicolare, un segno e degli interlocutori. Spesso comunichiamo anche attraverso codici che non conosciamo davvero appieno: con la voce, con i simboli, con il corpo, con le immagini, con la musica. Ogni nuova forma di espressione si innesta in questa complessità.Un linguaggio “nuovo” si presenta come qualcosa di ambiguo, ignoto. Ha la stessa forza di un’opera d’arte: si offre, ma non si spiega, e chiede di essere decifrato. Eppure nessun linguaggio nasce dal nulla: ogni nuova forma è comunque figlia di una precedente. La traduzione, infatti, si appoggia sempre al passato, a un linguaggio già esistito o alla memoria individuale. Così come la chiave per leggere un dipinto spesso si nasconde negli eventi della vita del suo autore.Sulla stessa convinzione che ogni cosa possa essere considerata linguaggio, non credo si possa usare il linguaggio contro il linguaggio. Anche nel tentativo di farlo, si torna inevitabilmente a comunicare, a costruire significato per qualcun altro, e quindi a rientrare nel linguaggio stesso.
Allora forse, il linguaggio contro è quello che annulla il proprio messaggio: un messaggio che non arriva, un segno che non chiarisce, ma confonde. Una moltitudine di segni che si annullano a vicenda. Se così fosse, potremmo dire che viviamo oggi immersi in questo linguaggio contro, dove il caos iconografico diminuisce e annulla le immagini stesse, ne diluisce all’infinito i significati. A questo linguaggio contro allora serve un contro-linguaggio, qualcosa che cerchi ordine nel caos. Opporre al disordine totale, un ordine riparatore. Usare il linguaggio in opposizione a questo disordine diventa resistenza. Sento allora, come persona che utilizza ed esprime se stessa quotidianamente attraverso l’immagine, la forte necessità e la responsabilità di far parte della resistenza, la responsabilità di dare chiarezza e senso alle immagini prodotte, a ri-significare quelle già esistenti in maniera virtuosa. Forse il compito dell’artista oggi non è soltanto creare, ma anche filtrare: selezionare tra il rumore i segni che meritano di sopravvivere, trasformarli in messaggi capaci di orientare. In questo gesto, si custodisce la possibilità di un linguaggio ancora umano, capace di restituire senso al nostro esistere.
Lorenzo Urgesi
Il mio sguardo si posa su ciò che resta indietro: oggetti abbandonati, segni dimenticati, frammenti che raccontano una storia ormai conclusa. Mi attraggono le presenze silenziose che sopravvivono ai margini, non più utili eppure ancora cariche di tempo. La fotografia diventa per me un modo di ascoltare queste tracce, di dare voce a ciò che non parla.In ogni oggetto dismesso riconosco un’eco di vita passata, un gesto interrotto, un’intimità che affiora nell’assenza. Fermare queste apparizioni significa restituire loro uno spazio, trasformare lo scarto in memoria, l’abbandono in racconto.
Il mio linguaggio nasce da questa attenzione fragile: uno sguardo che cerca poesia nella fine, e che nelle cose dimenticate ritrova una forma di resistenza al silenzio.










Emma Cusinato


Fidel Thomet, Giacomo Nanni
Public WiFi • Not a Network
A series of experiments investigating the naming of WiFi networks and how they reflect or distort the environments in which they are found, the language they produce and inhabit. In «Public WiFi», network names are scanned and juxtaposed with video recordings from the same locations. Although commercial names and factory default names prevail, some seem to convey subliminal messages. To capture this, a custom hybrid interface was created that collects available WiFi SSIDs along with their coordinates and timestamps, while simultaneously recording what is visible in that precise location. The names are then transformed into subtitles, superimposed on the videos. Most networks appear with commercial or factory default settings, but sometimes unexpected messages emerge, fragments of invisible conversations, cryptic warnings, references to the surrounding environment, or private jokes that leak into the public space. This observation is further explored in «Not a Network», which features a custom WiFi network that gradually performs poetry by continuously altering its own name. As the SSID shifts, it creates a slow text stream that can only be read by searching for available networks from one’s device. By Fidel Thomet & Giacomo Nanni.








Glorian Shtini
Qualche anno fa recuperai una serie di appunti e quaderni di mio nonno in Albania. Al tempo lui era gravemente malato di Alzheimer e io non riuscivo a leggere bene la lingua. L’unico modo per approcciarmi a quei materiali era, in qualche maniera, la forma: iniziai a realizzare delle repliche, riproducendo gli appunti di mio nonno in una scrittura asemica. Il contenuto non era tanto quel che era scritto, piuttosto il gesto ripetuto nel tempo.


Martina Zullo
Il reading poetico My love, am I becoming a blue fish? dell’artista Martina Zullo vuole proporsi come momento elegiaco all’interno di uno spazio vivo, contaminato, già connotato, nel quale la lingua viene manomessa, si meticcia, è parlata, anche nello spazio fisico della carta stampata. Gioca con significati e significanti: nel testo è presente la madre dell’artista, il fuoco che si accende nel momento della rivolta, i suoi denti da latte, il desiderio di venire meno, le stelle, la raccolta del grano, le femmine e la morte del suo primo ed unico pesce rosso. Un ritorno ai rituali del passato, alla sfera di pratiche di ciò che viene “fatto con le mani”, cantato nel fango e nell’acqua, che vede la possibilità in questo lavoro di farsi presente, di ritornare carne viva e sostanza liquida, sudore, ormone. Nella narrazione sonora si attiva un susseguirsi di momenti in cui il suono è l’unica voce, e altri in cui interviene e vi si sovrappone la voce viva e meticcia.. L’atmosfera presente nelle musiche e nei testi è quella di un momento, di una possibilità di mondo che è al contempo fuggevole e desideroso di confermarsi, lontano dall’esserci nel presente connotato delle ‘cose vive’ ma che non si dimentica della ghiaia, del terriccio umido e del muschio. Un presente, quello del succedere, in cui le gerarchie dell’ordine costituito si smembrano e si ricostruisce con nuove regole, nuovi equilibri e in cui i corpi si contagiano tra loro nell’esperienza vissuta in comunità, insieme. Ha molto a che vedere con la complicità, è fatto di sguardi e modalità dell’avvertirsi l’un l’altro, sia nel momento della scrittura del testo poetico e della produzione del suono, che nell’accadere con un pubblico ogni volta nuovo, diverso. Una comunità organica e politica, fatta di sorelle e bambini, lamenti e piccoli movimenti di reazione, di grano turco e lavoro nel campo. In alcuni momenti l’unica voce è quella dell’acqua del mare, del sottosuolo, della lisca dell’ultimo pesce pescato.


Ylenia Signorelli
A tornante begins in the gesture of drawing, when two lines cannot meet because the distance between them is too short to hold a curve. It takes shape there, as both a response to a constraint and an opening. Its name resonates, creating space, a point of contact, a question. tornante speaks of a love—a love without a name—of what arises precisely there, in the undefined in-between, and of what follows: something that has to do with compromise. Between things, between two things, tornante is the act of dwelling in that precise space, of paying attention, of being fully present. It is the sensation of something that both holds and lets go —all at once.

Pascal Mijnssen, Nora Zeller
In the context of our master’s thesis in Architecture at ETH Zurich, we are investigating the interplay of body, language, and meaning within the process of architectural design through the lens of Eugene Gendlin’s philosophy and methodologies of TAE (Thinking at the Edge) and Focusing. This document represents our documentation of the first part of our research, which we began during the spring semester. The document therfore serves as both the final product and a record of the process of its own development. The pdf is the digital version of the booklet, which was conceptualised as physical artifact/model. Currently, we are preparing for the project semester, during which we will test these methods in the design of an architectural project through which we want to develop embodied, situated pedagogical and didactic frameworks to discover new approaches to practicing architecture.




Alessandro Galli
Come studente e apprendista fotografo, mi interrogo spesso sull’utilità di esprimere un messaggio. Mi chiedo che senso abbia scegliere un linguaggio piuttosto che un altro, in un mondo in cui ogni cosa sembra già detta, già vista. Eppure, forse proprio per questo, vale la pena fare la fatica di portare ordine attraverso le immagini. Provare a esprimere un messaggio il più chiaro possibile con il medium che più di ogni altro caratterizza quest’era dell’informazione e dell’intrattenimento. Un medium che vive immerso in un caos contemporaneo totale, e porta con sé significati personali, sociali e rimane ambiguo per sua natura. È un linguaggio che non si lascia mai del tutto decifrare, e ci piace anche e soprattutto per questa ragione. Ecco perché resistere al caos delle immagini con altre immagini, forse, ha un senso. Viviamo in un mondo dove ognuno sembra inventare un linguaggio nuovo, sconosciuto. E allora diventa fondamentale produrre messaggi quanto più chiari possibile nel proprio linguaggio, per cercare di portare ordine nel disordine crescente delle lingue e dei segni che ci circondano.Credo infatti che ogni cosa possa essere considerata linguaggio: basta un messaggio da veicolare, un segno e degli interlocutori. Spesso comunichiamo anche attraverso codici che non conosciamo davvero appieno: con la voce, con i simboli, con il corpo, con le immagini, con la musica. Ogni nuova forma di espressione si innesta in questa complessità.Un linguaggio “nuovo” si presenta come qualcosa di ambiguo, ignoto. Ha la stessa forza di un’opera d’arte: si offre, ma non si spiega, e chiede di essere decifrato. Eppure nessun linguaggio nasce dal nulla: ogni nuova forma è comunque figlia di una precedente. La traduzione, infatti, si appoggia sempre al passato, a un linguaggio già esistito o alla memoria individuale. Così come la chiave per leggere un dipinto spesso si nasconde negli eventi della vita del suo autore.Sulla stessa convinzione che ogni cosa possa essere considerata linguaggio, non credo si possa usare il linguaggio contro il linguaggio. Anche nel tentativo di farlo, si torna inevitabilmente a comunicare, a costruire significato per qualcun altro, e quindi a rientrare nel linguaggio stesso.
Allora forse, il linguaggio contro è quello che annulla il proprio messaggio: un messaggio che non arriva, un segno che non chiarisce, ma confonde. Una moltitudine di segni che si annullano a vicenda. Se così fosse, potremmo dire che viviamo oggi immersi in questo linguaggio contro, dove il caos iconografico diminuisce e annulla le immagini stesse, ne diluisce all’infinito i significati. A questo linguaggio contro allora serve un contro-linguaggio, qualcosa che cerchi ordine nel caos. Opporre al disordine totale, un ordine riparatore. Usare il linguaggio in opposizione a questo disordine diventa resistenza. Sento allora, come persona che utilizza ed esprime se stessa quotidianamente attraverso l’immagine, la forte necessità e la responsabilità di far parte della resistenza, la responsabilità di dare chiarezza e senso alle immagini prodotte, a ri-significare quelle già esistenti in maniera virtuosa. Forse il compito dell’artista oggi non è soltanto creare, ma anche filtrare: selezionare tra il rumore i segni che meritano di sopravvivere, trasformarli in messaggi capaci di orientare. In questo gesto, si custodisce la possibilità di un linguaggio ancora umano, capace di restituire senso al nostro esistere.
Lorenzo Urgesi
Il mio sguardo si posa su ciò che resta indietro: oggetti abbandonati, segni dimenticati, frammenti che raccontano una storia ormai conclusa. Mi attraggono le presenze silenziose che sopravvivono ai margini, non più utili eppure ancora cariche di tempo. La fotografia diventa per me un modo di ascoltare queste tracce, di dare voce a ciò che non parla.In ogni oggetto dismesso riconosco un’eco di vita passata, un gesto interrotto, un’intimità che affiora nell’assenza. Fermare queste apparizioni significa restituire loro uno spazio, trasformare lo scarto in memoria, l’abbandono in racconto.
Il mio linguaggio nasce da questa attenzione fragile: uno sguardo che cerca poesia nella fine, e che nelle cose dimenticate ritrova una forma di resistenza al silenzio.










Emma Cusinato


Fidel Thomet, Giacomo Nanni
Public WiFi • Not a Network
A series of experiments investigating the naming of WiFi networks and how they reflect or distort the environments in which they are found, the language they produce and inhabit. In «Public WiFi», network names are scanned and juxtaposed with video recordings from the same locations. Although commercial names and factory default names prevail, some seem to convey subliminal messages. To capture this, a custom hybrid interface was created that collects available WiFi SSIDs along with their coordinates and timestamps, while simultaneously recording what is visible in that precise location. The names are then transformed into subtitles, superimposed on the videos. Most networks appear with commercial or factory default settings, but sometimes unexpected messages emerge, fragments of invisible conversations, cryptic warnings, references to the surrounding environment, or private jokes that leak into the public space. This observation is further explored in «Not a Network», which features a custom WiFi network that gradually performs poetry by continuously altering its own name. As the SSID shifts, it creates a slow text stream that can only be read by searching for available networks from one’s device. By Fidel Thomet & Giacomo Nanni.








Glorian Shtini
Qualche anno fa recuperai una serie di appunti e quaderni di mio nonno in Albania. Al tempo lui era gravemente malato di Alzheimer e io non riuscivo a leggere bene la lingua. L’unico modo per approcciarmi a quei materiali era, in qualche maniera, la forma: iniziai a realizzare delle repliche, riproducendo gli appunti di mio nonno in una scrittura asemica. Il contenuto non era tanto quel che era scritto, piuttosto il gesto ripetuto nel tempo.


Martina Zullo
Il reading poetico My love, am I becoming a blue fish? dell’artista Martina Zullo vuole proporsi come momento elegiaco all’interno di uno spazio vivo, contaminato, già connotato, nel quale la lingua viene manomessa, si meticcia, è parlata, anche nello spazio fisico della carta stampata. Gioca con significati e significanti: nel testo è presente la madre dell’artista, il fuoco che si accende nel momento della rivolta, i suoi denti da latte, il desiderio di venire meno, le stelle, la raccolta del grano, le femmine e la morte del suo primo ed unico pesce rosso. Un ritorno ai rituali del passato, alla sfera di pratiche di ciò che viene “fatto con le mani”, cantato nel fango e nell’acqua, che vede la possibilità in questo lavoro di farsi presente, di ritornare carne viva e sostanza liquida, sudore, ormone. Nella narrazione sonora si attiva un susseguirsi di momenti in cui il suono è l’unica voce, e altri in cui interviene e vi si sovrappone la voce viva e meticcia.. L’atmosfera presente nelle musiche e nei testi è quella di un momento, di una possibilità di mondo che è al contempo fuggevole e desideroso di confermarsi, lontano dall’esserci nel presente connotato delle ‘cose vive’ ma che non si dimentica della ghiaia, del terriccio umido e del muschio. Un presente, quello del succedere, in cui le gerarchie dell’ordine costituito si smembrano e si ricostruisce con nuove regole, nuovi equilibri e in cui i corpi si contagiano tra loro nell’esperienza vissuta in comunità, insieme. Ha molto a che vedere con la complicità, è fatto di sguardi e modalità dell’avvertirsi l’un l’altro, sia nel momento della scrittura del testo poetico e della produzione del suono, che nell’accadere con un pubblico ogni volta nuovo, diverso. Una comunità organica e politica, fatta di sorelle e bambini, lamenti e piccoli movimenti di reazione, di grano turco e lavoro nel campo. In alcuni momenti l’unica voce è quella dell’acqua del mare, del sottosuolo, della lisca dell’ultimo pesce pescato.


Ylenia Signorelli
A tornante begins in the gesture of drawing, when two lines cannot meet because the distance between them is too short to hold a curve. It takes shape there, as both a response to a constraint and an opening. Its name resonates, creating space, a point of contact, a question. tornante speaks of a love—a love without a name—of what arises precisely there, in the undefined in-between, and of what follows: something that has to do with compromise. Between things, between two things, tornante is the act of dwelling in that precise space, of paying attention, of being fully present. It is the sensation of something that both holds and lets go —all at once.
